Quanto è abbastanza? Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici?

Il capitalismo è sotto attacco da tempo immemore, ne sanno qualcosa Carlo Marx, i sovietici, i cubani e via discorrendo.

Quanto è abbastanza?‘ è una proposta non necessariamente radicale (dipende da cosa si intende per ‘radicale)per superare il consumismo sfrenato e puntare ad un mondo diverso in cui il lavoro è fatto per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; per citare una fonte più autorevole potremmo dire che «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Vangelo di Marco – 2, 27).

Robert e Edward Skidelsky (un economista e un filosofo, padre e figlio)hanno sviluppato in questo volume una loro teoria sul modo di intendere l’economia, il lavoro, e soprattutto gli obiettivi che nella vita ci si dovrebbe porre.

Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionale: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose.


Così scriveva Keynes nel suo saggio ‘Possibilità economiche per i nostri nipoti‘ all’inizio del XX Secolo.

Keynes, prevedendo la situazione economica dopo cento anni (riferendosi cioè ai nostri giorni) nel suddetto saggio si aspettava una riduzione delle ore di lavoro ed un maggiore benessere diffuso, e profettizzava anche che questo maggior tempo libero fosse stato impiegato dagli individui per ricercare quella che lui chiamava beatitudine, cioè una innalzata qualità della vita, la contemplazione della bellezza, la coltivazione di rapporti umani interessanti e così via.

In cosa Keynes sbagliava? Che sbagliasse è un dato di fatto, ce lo dicono molte statistiche (presentate nel libro). Oggi lo stile di vita è sicuramente migliorato, e il reddito è aumentato, anche quello pro-capite, ma si continua a lavorare allo stesso modo. Perché?

Sulla base di alcuni sondaggi gli intervistati dichiarano tre motivazioni che li spingono a lavorare: alcuni lo fanno perché ‘gli piace’, altri ancora perché ‘sono costretti’ e altri perché ‘vogliono di più’.

L’avarizia, da vizio a virtù

Prima della rivoluzione di Adam Smith (La ricchezza delle nazioni, 1796)l’avarizia era considerata un vizio, e l’avaro una persona dalla quale tenersi alla larga, o quantomeno da non lodare. Da Smith, e prima ancora da Mandeville nel suo ‘La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici‘, le cose cambiarono. L’avarizia venne giustificata come un male necessario, un vizio privato proteso al pubblico beneficio. L’avarizia di ciascuno faceva si che il sistema andasse verso il meglio, verso il bene. La famosa teoria della mano invisibile.
Dopo Smith quella che prima veniva chiamata avarizia avrebbe preso il nome più digeribile di ‘interesse personale‘.

Come nel Faust, l’umanità ha venduto l’anima al diavolo (cioè all’avarizia), ma mentre nel dramma il diavolo esce di scena alla fine, noi non ci siamo liberati da questo patto faustiano.

Keynes sosteneva che il sacrificio che il capitalismo comportava sarebbe svanito una volta che l’umanità avrebbe raggiunto la soglia di benessere ragionevole per tutti.
Il problema è che questa soglia sembra non esistere, e questo Keynes non l’ha previsto.

A cosa serve la ricchezza? Bisogni contro necessità.

Prima del decollo del neoliberismo, tutti i discorsi sulla ricchezza erano permeati dal concetto di limite. Non si è mai dubitato dell’esistenza di limiti.

Con l’avvento di questo capitalismo c’è stato un totale sacrificio del valore d’uso delle cose a beneficio del valore di scambio.

Il denaro, nato come mezzo di scambio, diventerà un fine a sé.

Secondo Aristotele la ricchezza era necessaria al perseguimento della eudaimonia, ovvero quella che dagli Skidelsky viene chiamata la vita buona.

Oggi si è completamente perso il concetto di vita buona, l’utilitarismo e il relativismo non danno più giudizi su cosa sia bene, ma su cosa sia bene per ciascuno (concetto di per se criticabile, per qualcuno potrebbe essere considerato bene consumare eroina per esempio).

I termini bisogni e necessità vengono oggi usati come sinonimi, quando sinonimi non sono. Le necessità sono per loro natura limitate, mentre i bisogni possono essere infiniti.

Un esempio che viene fatto nel libro è relativo alla salute, e al concetto di malattia. Con l’assimilazione della medicina alla sfrenata competizione, quello che una volta era considerato uno stato normale di un uomo di una certa età viene oggi presentato come la «disfunzione erettile», per la quale è necessario un farmaco, il viagra.

Nel prosieguo del testo si individuano alcuni beni, chiamati beni fondamentali, e vengono tracciati alcuni possibili sentieri per uscire da questo consumismo sfrenato e ricercare in qualche modo la vita buona, fatta di questi beni fondamentali.

A prescindere dal fatto che si possa o meno essere d’accordo con il punto di vista degli autori, il testo è scritto molto bene, è ricco di dati, e soprattutto di ulteriori spunti di approfondimento, verso altre letture che in un modo o nell’altro sono di sicuro feconde per chi si interessa di economia.

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